Immagine di sfondo della pagina Dai muri di Marsiglia a un’utopia industriale catalana: appunti di viaggio dalle Land Experiences di Costa Crociere
18 dicembre 2025

Viaggiare per scoprire e per conoscere. Viaggiare per guardare oltre, per pensare e interrogarsi. Probabilmente una simile idea si associa con difficoltà a una crociera, prodotto turistico spesso visto come oggetto del desiderio di chi vuole vivere una vacanza a base di relax e divertimento. Eppure c’è modo di ricredersi. Sì, perché se a bordo i ritmi sono scanditi da spettacoli, orari di pranzo e cena e feste serali, basta scendere dalla nave per lasciarsi sorprendere da qualcosa di diverso.
Di recente ho trascorso qualche giorno a bordo di Costa Smeralda in occasione di Protagonisti del Mare 2025, e ho altresì avuto l'occasione di prendere parte a due Land Experiences tra le tante che Costa Crociere propone ai propri ospiti. Avendo già visitato sia Marsiglia sia Barcellona, ho optato per qualcosa di diverso dai classici itinerari ed è proprio dai luoghi che ho attraversato che parte questa riflessione. Una considerazione che poggia sulla convinzione – la mia – che limitarsi a raccontare ‘cosa si vede’ sia riduttivo e banale. Perché esistono luoghi dove magari da vedere, appunto, c’è poco o comunque nulla che possa togliere il fiato come una maestosa cattedrale o un capolavoro d’arte rinascimentale. Tuttavia, sebbene l’essere instagrammabile sia uno dei cult dell’epoca contemporanea, si può scavare più a fondo e cogliere così l’anima di una destinazione recependone persino un insegnamento.

Marsiglia: identità sociale e street art

Abbandonate per qualche ora tutte le comodità e le ‘coccole’ di Costa Smeralda, le mie Land Experiences mi hanno condotto – come prima tappa – nel quartiere Le Panier di Marsiglia, il più antico della città. Posizionato sopra il porto, ha un qualcosa che ricorda Genova: sarà il mare che non tramonta mai, sarà il dedalo di vicoli con quel tocco artistico e decadente allo stesso tempo. Questa zona, storicamente casa degli ‘ultimi’ – migranti, portuali, ceti sociali più popolari – è stata per lungo tempo simbolo di marginalità sociale con una conseguente reputazione torbida e uno scenario di disagio emotivo, di rabbia collettiva. Un terreno fertile, quello della difficoltà umana (e urbana), per i movimenti di reazione, per le contestazioni. Persone che cercano e pretendono una risposta da una società indifferente e che si trasformano da ‘invisibili’ ad autori di un atto identitario. Persone che si riappropriano di uno spazio e che per farlo lasciando il segno hanno scelto una forma di espressione ad alto contenuto creativo: la street art. Non si tratta di un semplice orpello colorato ‘acchiappaturisti’, qui i muri non chiacchierano per moda bensì per necessità. I graffiti sono la voce di chi ha sentito l’esigenza di urlare dopo anni di bavaglio, di raccontare storie e frammenti di un’esistenza opaca dandole piuttosto un tocco – o mille sfumature – di colore. Murales, stencil, tag nascondono volti e vite: l’arte diventa linguaggio accessibile, immediato, democratico. L’arte non chiede il permesso per esistere, e non chiede nemmeno scusa. Non chiede di essere guardata ma di essere ascoltata. La street art è parte del quotidiano di Le Panier che, negli ultimi anni, ha saputo e ha voluto aprirsi ai visitatori. Ancora una volta, non per essere ‘cool’, ma per far toccare con mano quello che è stato, per mettere la propria gente al centro di una narrazione potente. Un laboratorio a cielo aperto, forse persino una galleria naïf, dove oggi gli artisti dialogano con lo spazio, con chi lo abita e con chi magari lo fa suo soltanto per una breve mattinata. La street art, su questo palcoscenico, ha un solo obiettivo: rendere visibile ciò che spesso resta ai margini. Per un presente fatto di connessione con il territorio, partecipazione e inclusione.

Una chicca: essere spettatori può essere noioso. E allora perché non farsi portavoce del cambiamento cimentandosi in prima persona con il disegno? Sotto la guida di due artisti locali, armata di stencil e bombolette colorate, ho realizzato anch’io la mia piccola opera di urban art. Un ricordo su carta che fa sentire parte di un processo. Uno strumento per apprendere e non una mera fame estetica.

Oltre Barcellona: l’utopia industriale della Colònia Güell

Il giorno successivo, la crociera è giunta a Barcellona. Il capoluogo catalano – noto ai più per la celebre rambla e la Sagrada Familia oltre che per la vivace spiaggia di Barceloneta – si rivela anche oltre i propri confini. La seconda Land Experience alla quale ho preso parte ha scavalcato il perimetro cittadino spingendoci verso le colline adiacenti. Ad appena venti minuti dal porto, ci si imbatte in un insolito Gaudí. Ci si trova davanti a un progetto sinonimo di un’impresa evoluta, di una sorta di welfare ante litteram. Si tratta della Colònia Güell, un’utopia architettonica e sociale che – tra il XIX e il XX secolo – ha rappresentato un modello avanguardistico di colonia industriale. Edificata per la comunità di operai alle dipendenze dell’imprenditore tessile Eusebi Güell e da lui fortemente voluta, non fu concepita come semplice insediamento produttivo, ma come un ecosistema sociale evoluto capace di garantire benessere e qualità della vita ai lavoratori della fabbrica e alle loro famiglie. Non solo un polo manifatturiero come nel più distopico (e tossico) dei ‘tempi moderni’, bensì un centro economico circondato da servizi per gli esseri umani visti nella loro sfera più intima e non interpretati come ‘macchine a due braccia’. La Colònia Güell prevedeva abitazioni dignitose ancora ben visibili e con dettagli stilistici di grande impatto visivo (del resto, la mano era pur sempre quella di Gaudí!), la scuola, il teatro, spazi culturali e sanitari. Alle donne operaie era persino consentito allattare i propri figli durante l’orario di lavoro. Un’anticipazione di concetto di responsabilità sociale d’impresa che non dimentica il capitale umano, una visione che trasmette con dirompente energia il valore strutturale ma soprattutto politico di questo luogo. Tanto che viene da domandarsi se forse, ancora adesso e nella nostra convulsa modernità, vi sia davvero spazio per un orientamento al progresso economico che metta al centro le persone senza mortificarne diritti e dignità. E che lo faccia non come dichiarazione d’intenti ma come atto tangibile. Ma questa è un’altra storia, e rischia di portarci lontano.

Una chicca:
tornando alla Colònia Güell, imperdibile è la cripta a firma di Antoni Gaudí. Pretendere di riscontrarne una qualche coerenza architettonica risulta difficile ma la magia di questo piccolo angolo risiede proprio nel suo ‘mistero’. È sperimentazione, è simbolismo. Si respira un senso mistico dove l’incompiuto è evidente. Dove la luce filtra sottile dai vetri policromi, dove l’atmosfera è raccolta e – per chi vuole – dove ci si può interrompere per una preghiera. In occasione della mia visita ho avuto l’opportunità di riceverne una dettagliata spiegazione da parte di uno storico dell’arte che ne ha sviscerato (quasi) ogni segreto. Ma l’impatto emotivo più inaspettato si è palesato sulle prime note del Canone in Re Maggiore di Pachelbel, fluite dalle corde di un violino e un violoncello. Le due musiciste hanno trasformato la cripta in un piccolo salotto che hanno riempito con l’incantesimo delle melodie che hanno suonato, regalandoci dei minuti di puro benessere. Di calma interiore, dove – da Bach ai The Weekend passando per un inconfondibile Henri Mancini – tutto taceva. Tutto parlava.

Il viaggio come strumento di comprensione, non come caccia all’immagine

Cosa mi porto a casa? Ancora una volta, la piena convinzione che valga la pena non lasciarsi ingannare dalle apparenze. Perché anche lì dove il mondo non sembra disegnato ad hoc per essere postato su Instagram, c’è bellezza. E c’è bellezza perché c’è conoscenza. Dall’improvvisarsi street artist con la consapevolezza di cosa quel gesto significhi, al ritrovarsi catapultati nel secolo scorso in un contesto industriale che nel suo mutismo apparente custodisce una cultura del lavoro rivoluzionaria. E di foto, in ogni caso, ne ho scattate eh, nonostante non tutto fosse estremamente fotogenico. Ma cosa importa? Ci sono esperienze ‘timide’ che non vogliono essere impresse su uno schermo ma richiedono tempo, ascolto, contesto. E il fil rouge tra le mie due Land Experiences è stato per me istantaneo: Le Panier e la Colònia Güell sono entrambi manifesto della propria epoca, del proprio Paese, ambasciatori di rottura sociale: l’uno che capovolge il sistema partendo dal basso e l’altro che lo ridefinisce muovendo dal ‘sogno’ di un imprenditore illuminato. Sono linguaggi diversi, ambienti diversi ma condividono la medesima radice: l’idea che i luoghi non siano scenografie ma piena espressione di dinamiche sociali, culturali e umane. Chiamarle ‘escursioni’, sarebbe minimizzante. In entrambi i casi, il valore della visita risiede in ciò che ci agita, ci scuote e non ci lascia indifferenti. Forse risiede in ciò che ci fa lasciare il telefono in tasca, abbandonando almeno per qualche istante l’attrazione fatale della spettacolarizzazione. Ed è qui che il viaggio smette di essere consumo e torna a essere verità.

Gaia Guarino

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