Il romanzo rosa del green: quando la sostenibilità diventa narrativa
Nel turismo tutti parlano di sostenibilità, ma spesso è marketing travestito da coscienza. E se il vero “green” fosse una relazione e non una strategia?
Nel turismo la sostenibilità è diventata come il prezzemolo: la trovi ovunque, soprattutto dove non serve. È il nuovo “ciao” dei comunicati stampa, il mantra dei panel, il vestito buono che si indossa quando si vuole sembrare virtuosi. Il fatto che poi la realtà non sia proprio all’altezza…è un dettaglio trascurabile, pare. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’escalation di dichiarazioni “green” che, più che cambiare il mondo, sembrano voler cambiare la percezione del mondo. E non quella del pianeta – che, scientificamente parlando, continua a mandarci segnali molto chiari – ma quella del consumatore, che da bravo essere umano vuole credere che il posto dove ha passato un weekend meraviglioso sia naturalmente sostenibile.
Perché se ci si è trovati bene, ovvio che fosse green. E non lo dico io, bensì i dati di un recente studio effettuato sul segmento hospitality secondo il quale non c’è correlazione tra rating di sostenibilità e la soddisfazione del cliente. Se l’esperienza è stata positiva, nella testa dell’ospite quel luogo è “verde” per definizione. Il risultato? Una sensazione costruita più dall’emozione che dalla sostanza.
E qui sorge il problema: se tutto ciò che ci piace è green, allora la sostenibilità è diventata un aggettivo affettivo, non un criterio. Un like, non un impegno. Una carezza al brand più che un atto nei confronti dei territori. E questo dovrebbe farci suonare un campanello d’allarme, forte. Nel travel, talvolta, è più comodo raccontare la propria conversione ecologica che mettersi davvero in discussione. Così abbiamo destinazioni che dichiarano di essere sostenibili mentre vivono di overtourism strutturale, hotel che puntano tutto sull’ultimo bollino conquistato ma ignorano ciò che accade fuori dai propri cancelli, aziende che parlano di rigenerazione con lo stesso entusiasmo con cui dieci anni fa parlavano di chissà quale altro trend.
E poi c’è il greenwashing, che nel turismo non è una tendenza: è uno stile narrativo. Un genere letterario. Il romanzo rosa del marketing. Cambiano i personaggi, non la trama: dichiarazioni gonfie, promesse vaghe, obiettivi al 2030 che nessuno controllerà mai. Si vende più speranza che consapevolezza, più certificato che cambiamento, più strategia che responsabilità.
Perché la verità è scomoda: la sostenibilità non è glamour. Non è instagrammabile. Le 50 sfumature di verde richiedono fatica, rinunce, scelta di alleanze, ascolto vero delle comunità. E soprattutto richiedono un pensiero di lungo periodo, cosa che nel turismo – settore spesso schiavo dei numeri trimestrali e del “come chiudiamo l’anno” – non sempre fa comodo. Allora forse è arrivato il momento di dirlo con semplicità: se abbiamo bisogno di ripeterci continuamente che siamo sostenibili, forse non lo siamo abbastanza. La sostenibilità è un processo, non un claim. Un comportamento, non un annuncio. Una relazione con il luogo, non una collezione di bollini.
Ed eccoci al punto: la strada non è convincere il viaggiatore che siamo green.
È costruire esperienze così coerenti, rispettose e generative che sarà lui, spontaneamente, a percepirle come tali. Non perché lo abbiamo detto, certificato, timbrato o pubblicato, ma perché lo ha sentito. E magari, nel frattempo, possiamo concederci il lusso di non usare la parola “sostenibilità” per qualche giorno. Un piccolo esperimento collettivo: proviamo a capire cosa resta quando togliamo il buzzword. Forse, ed è un augurio, rimane proprio ciò che vale di più: la relazione.
Gaia Guarino