Immagine di sfondo della pagina Il viaggio che resta: perché fuggire non ci salverà (mai)
08 settembre 2025

“Parto e non torno più”. Quante volte lo abbiamo detto, pensato, sognato. Come se il viaggio fosse un biglietto di sola andata, una corsa senza traguardo, un’evasione. Ma dove?
Evasione da cosa? Dai ritmi che ci schiacciano, da una quotidianità che sembra consumarci, da problemi che crediamo di poter dimenticare con la distanza.
Il viaggio, in questa prospettiva, viene caricato di aspettative smisurate: come se bastasse spostarsi lontano per rinascere, come se cambiare scenario fosse di per sé terapeutico, un fiore di loto capace di cancellare ricordi e preoccupazioni. Non a caso, le destinazioni più desiderate diventano quelle paradisiache, quelle dove persino le nostre ansie sembrano poter trovare il loro posto su un lettino al sole: le spiagge maldiviane, gli atolli della Polinesia, immagini che sembrano urlare: “vieni qui e starai bene”.
Eppure, chi lavora nel turismo lo sa: questa promessa ha fondamenta fragili. Perché la fuga non è un viaggio. È un altrove provvisorio, un’illusione che spesso si dissolve al primo rientro. La parentesi che ci culla nella leggerezza, ma che non lascia segni profondi. 
Il viaggio vero, quello che resta, non è evasione: è trasformazione. Non è una cavalcata verso l’ignoto, ma un cerchio che ci riporta a casa diversi, più consapevoli, più ricchi dentro.

In greco antico, il termine più vicino a “viaggio” è nóstos: ritorno. Un vero viaggio, dunque, prevede sempre un ritrovarsi al punto di partenza. Non a caso nella parola nostalgia – quella che in questo settembre, al rientro dalle vacanze, ci stringe il cuore – c’è dentro il desiderio, anzi più precisamente il dolore del ritorno: a luoghi, a momenti, a stati d’animo passati.
Il viaggio dovrebbe essere una carezza, non un miraggio. Una ferita che diventa cicatrice, non un anestetico momentaneo.
Ed è qui che il turismo entra in gioco con tutta la sua responsabilità: il modo in cui si raccontano le destinazioni plasma il senso del viaggio. Continuare a proporre solo “fughe” significa ridurre il turismo a consumo veloce, a prodotto di evasione. Una caccia alla felicità istantanea, un'overdose che ci stordisce per qualche ora per poi farci ripiombare nel grigio del quotidiano.
Al contrario, accompagnare i viaggiatori verso esperienze che trasformano, che lasciano domande più che risposte, significa restituire dignità e profondità al viaggio.
Perché se è vero che l’industria turistica è fatta di pacchetti, voli, soggiorni, è altrettanto vero che ciò che si vende non è solo uno spostamento geografico. È un coccio di vita. Un fragile frammento di esistenza. È un invito a scoprire, a interrogarsi, a tornare diversi.

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, dice Tancredi ne "Il Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa. Forse il viaggio è proprio questo: rompere ciò che crediamo di essere, farlo a pezzi, per ritrovarci nudi, veri, davanti a uno specchio. E rimetterci in marcia.
E allora sì, il viaggio può essere fuga – ma soltanto se è fuga da ciò che ci immobilizza. Perché l’unico viaggio che vale la pena affrontare è quello che ci restituisce a noi stessi, irriconoscibili eppure più autentici.
E il compito del turismo è ricordarcelo, ogni volta, in ogni racconto, in ogni esperienza. In ogni ricordo.

Gaia Guarino

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