Immagine di sfondo della pagina Tra percentuali e persone: perché il viaggio va oltre la contabilità
22 settembre 2025

Ogni mattina la casella di posta di un giornalista di turismo si riempie di comunicati stampa che sembrano gareggiare a chi vanta il numero più scintillante: “+28% di prenotazioni”, “estate da record”, “incremento sopra le aspettative”. È il sottofondo costante del nostro mestiere: leggere, selezionare, pubblicare. Un rito quasi liturgico, dove le percentuali diventano titoli e le variazioni a doppia cifra una promessa di successo. Ma, a furia di scorrere questi dati, non di rado ci si interroga su che storia raccontino davvero. Cosa c’è oltre il simbolo “+”?

La domanda non nasce da diffidenza, ma da attenzione. Il dato è parte integrante della comunicazione b2b: misura il mercato, orienta le scelte, sostiene la fiducia. Ma può bastare? Il turismo è economia, certo, ma anche relazione, paesaggio, cultura. È qualcosa, insomma, che non si esaurisce nelle percentuali.
C’è poi un altro aspetto: scriviamo di turismo in un mondo che purtroppo, di questi tempi, “va male”, eppure ci troviamo quasi sempre a riportare cifre positive. Quando i risultati non ci sono, si usano eufemismi: “lieve flessione”, “calo che non spaventa”, “dati in compensazione”. Durante la pandemia ammettere i segni meno era inevitabile; oggi sembra un sintomo di incompetenza. È come se il nostro settore avesse sviluppato una sua “cultura della vergogna”, che non è quella omerica ma vi somiglia: vale a dire mantenere immacolata la reputazione, che se macchiata viene ineluttabilmente colpita con la sanzione sociale della vergogna, punendo così chiunque non sia all’altezza del modello. Una società – o un segmento – fortemente competitivo, in cui vige la volontà di imporsi.

Eppure, il turismo vive di variabili imprevedibili: un evento climatico, una crisi geopolitica, una tendenza social possono cambiare tutto da un giorno all’altro. Accettare che non sempre vada al “top” non è debolezza, è realismo. Coltivare la cultura dell’errore significa riconoscere che anche le montagne russe fanno parte del gioco.
I numeri, se letti e trattati da monadi, rischiano di appiattire la comunicazione. Senza contesto diventano un mantra, e noi cronisti rischiamo di trasformarci in semplici pallottolieri. I dati vanno resi pubblici, certo, ma anche illustrati: non basta dire “record”, serve spiegare perché, per chi, con quale visione.
Non è un caso che, nella storia del pensiero, i numeri e le idee abbiano camminato insieme. «La matematica è l’alfabeto con cui Dio ha scritto l’universo», ripeteva Galileo Galilei (o almeno così è stato tramandato!): una frase che ricorda come il calcolo non sia mai stato solo strumento tecnico, ma linguaggio per capire la realtà. Filosofia e matematica, infatti, nascono dalla stessa tensione: dare ordine al caos, cercare ragione dietro al dato. Cartesio lo sapeva bene, quando fondava il suo “cogito” sulla geometria. Ogni cifra, come ogni concetto, chiede di essere pensato, interpretato, messo in relazione con l’esperienza umana.

Perché il turismo abbraccia anche la sociologia, la psicologia, l'antropologia. Al centro non c’è il numero: c’è l’uomo. Ed è qui, nella capacità di riportare non solo quanto si vende ma quale mondo si immagina, che il nostro settore può davvero soppesare la propria grandezza.
Menzionare i dati, sì. Ma soprattutto spiegare perché contano. Perché se i numeri ci dicono quanto, le storie rivelano chi siamo. E senza questo passaggio, il turismo non è crescita: è solo contabilità. Affiancare alle cifre domande, contesto e pensiero critico non è dunque un esercizio letterario: è l’unico modo per restare fedeli alla complessità del viaggio e alle persone che lo rendono possibile, è il vero metro della nostra esperienza condivisa.

Gaia Guarino

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