Dove finiscono le vite che si sfiorano in viaggio?
Tre sconosciuti e una notte qualunque rivelano la verità del viaggio: connettersi, anche solo per un istante.
Era il 1979 quando gli scaffali delle librerie accolsero un libro quanto mai unico. Un metaromanzo, un esempio di letteratura postmoderna. Sulla copertina il titolo: “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. La firma, quella di Italo Calvino.
Ieri pomeriggio, mentre mi interrogavo sull’editoriale di questo lunedì festivo, la mia testa ha fatto un viaggio che mi ha portato a pensare proprio al titolo di quest’opera. Il viaggio, a dire la verità, è partito dal racconto del mio amico Andrea…che ha sempre una storia da raccontare. Mentre bevo una tisana, mentre chiacchiero con Gianna – la sua fidanzata – o mentre gioco con il suo cane. Persino quando sono sull’uscio della porta pronta ad andare via, in quel caso tira fuori i teaser migliori…e alla fine parte l’aneddoto.
Ecco, la sua storia, che – rubando l’idea a Calvino – intitolerei “Se una notte di non so quale stagione tre viaggiatori”, e che mi ha dato lo spunto per mettere giù il mio pezzo. Un racconto che ho immaginato come una pièce teatrale e che mi ha spinto a fare delle riflessioni proprio sul senso stesso del viaggiare, sulle molteplici possibilità che prendere un aereo (e rischiare persino di perderlo) possa riservare a livello umano.
Tutto in una notte
Non è "Chi ha paura di Virginia Woolf?". Sono tre uomini, tutti diretti all’aeroporto di Bergamo, che si ritrovano alla fermata di un bus che non arriverà mai. Tutti hanno un volo che li aspetta all’alba. Destinazioni diverse, motivazioni diverse. C’è Andrea che deve andare dalla famiglia in Abruzzo, un altro è diretto alle Canarie, il terzo ha un biglietto per la Repubblica Ceca per riabbracciare la figlia. C’è un quarto personaggio in questa trama, una ragazza. Lei non deve partire, aspetta il pullman per tornare verso casa. Lei, si rivela il deus ex machina di tutta la narrazione: sua madre decide di spingersi fino a Milano per recuperarla e – per ringraziare i tre signori che sono rimasti con la figlia non abbandonandola a notte fonda alla stazione di Milano centrale – decide di accompagnargli tutti a Orio.
Ed è qua che inizia la parte più intrigante. Tre uomini, ciascuno con il proprio vissuto e la propria storia, si trovano a trascorrere svariate ore nel silenzio dello scalo orobico che diventa improvvisamente un palcoscenico. A uno a uno, i personaggi vanno sotto il proprio riflettore (questo è ciò che ho visualizzato a livello di messa in scena) e si confessano. Si intrecciano pensieri sulla vita, elucubrazioni filosofiche. Tre sconosciuti, complici sonno ma anche adrenalina, diventano tre atomi parte di un’unica molecola chiamata vita. È più di un momento, interrotto dal primo accenno d’aurora che ne divide le strade. Verso il proprio gate, verso il proprio destino.
L’aeroporto si trasforma in un improvvisato bar che sembra saltato fuori da un quadro di Hopper, I nottambuli. Le esistenze di tre persone sconosciute, per un curioso tiro di dadi del fato, si mescolano. Si allineano. Per un istante di eternità, e poi magari allontanarsi per sempre dietro la promessa di un classico e spesso bugiardo “Teniamoci in contatto”.
Ed è questo, forse, il punto in cui ogni viaggio smette di essere soltanto geografia e diventa qualcosa di più sottile, più intimo. Perché viaggiare non significa soltanto attraversare chilometri, scansionare carte d’imbarco o spostare la sveglia quando il cielo è ancora avvolto nel buio.
Viaggiare è concedersi la possibilità di incontrare vite che corrono parallele alla nostra, distanti – a volte lontanissime – per storia, età, evoluzione, ma capaci di toccarci con una delicatezza che sorprende. È ascoltare frammenti di esistenza che non ci appartengono e scoprire, con sorpresa, che un po’ ci assomigliano. C’è un valore silenzioso nella condivisione, in quell’arte sottile di trasformare l’uno in “tanti”. Un pensiero che diventa dialogo, un ricordo che diventa sorriso collettivo, una paura che – raccontata – si alleggerisce. È la magia dell’umanità in movimento: tre persone qualsiasi, in un aeroporto qualsiasi, che per poche ore sospendono i confini del proprio mondo e aprono una fessura attraverso cui passa la luce dell’altro. Perché ogni incontro contiene un dono, se sappiamo riconoscerlo.
A volte lasciamo negli altri una piccola traccia invisibile, ma reale. Altre volte siamo noi a raccogliere un seme, una frase detta in un momento di stanchezza, uno sguardo fraterno, un gesto gratuito. Piccole cellule emotive che finiscono dritte nel bagaglio a mano, senza mai essere dichiarate al controllo sicurezza. E allora succede che un semplice spostamento si ribalta: non è più “andare da A a B”, ma diventa narrazione. Diventa storia. Diventa quell’emozione inattesa che ci ricorda che non siamo isole ma arcipelaghi: distanti, sì, ma fatti per connetterci.
Forse è questo il vero motivo per cui siamo così attratti dal partire: perché ogni viaggio è un invito a sgretolare la solitudine, a lasciarci toccare, a scoprire che la vita – quando la condividi – suona sempre un po’ meglio. È un accordo mai stonato. E mentre il cielo si riempie di voli in partenza e arrivo, penso che in fondo viaggiare sia questo: inciampare e accogliere il piccolo universo degli altri, rinunciando a un pizzico del proprio sé. È tornare a casa sapendo che, da qualche parte nel cosmo, c’è qualcuno che – anche solo per una parentesi infinitesimale – porterà con sé il nostro nome, la nostra risata, il nostro passaggio lieve. Perché il viaggio finisce quando atterri, è vero.
Ma l’impronta che lasci, quella no, quella continua a camminare.
Gaia Guarino