Immagine di sfondo della pagina Dal lessico al viaggio: perché il turismo ha bisogno di parole nuove
01 settembre 2025

Settembre è tempo di riflessioni. La stagione estiva sfuma lentamente e, mentre gli ombrelloni iniziano a chiudersi colpiti dal maestrale che spettina il mare, il turismo si prepara a cambiare pelle, entrando nell’autunno. Ma prima di guardare avanti, è necessario fermarsi. Fermarsi a pensare mettendo l’accento su un tema che riguarda tutti noi che operiamo in questo settore – dai media ai tour operator e non in ultimo le agenzie di viaggio. Mi riferisco al linguaggio con cui raccontiamo i viaggi. Perché le parole, quando si consumano, non descrivono più: svuotano.
Oggi il turismo abbonda di termini ripetuti fino allo sfinimento. Tutto è “autentico”, “unico”, “esperienziale”, “immersivo”. Ogni proposta è “sostenibile”, ogni luogo si può “scoprire” e in ogni itinerario ci si può “immergere”. Ma se ogni cosa è autentica, unica, sostenibile, allora nulla lo è più davvero. Il rischio? Che anche l’anima delle destinazioni venga svuotata.

Così, tra un foliage in Giappone e un ultimo tuffo d’ottobre in Sardegna, le differenze sembrano assottigliarsi. La geografia diventa indistinta, le parole ridotte a etichette. Il mondo, sotto questa patina di aggettivi, finisce per assomigliare a un’infinita Pangea turistica: una vetrina globale di promesse intercambiabili.
E naturalmente, guai a scontentare qualcuno: ogni luogo deve essere “bello”, “attraente”, “sicuro”. Un mondo che appare come un Eden universale, pronto a rassicurare masse di viaggiatori. Ma questa lingua piatta, che vuole piacere a tutti, finisce per non emozionare nessuno. Si dimentica.
Chi dovrebbe valorizzare i territori, troppo spesso cade nello stesso tranello: un lessico uniforme, levigato, che smarrisce la voce genuina dei luoghi. L’altrove - qualunque esso sia - viene confezionato per sedurre, ma non per inquietare, proporre, sorprendere.
Eppure, il viaggio nasce dall’irrequietezza, dal bisogno di uscire - non solo di partire. Nel 1911, il poeta greco Costantino Kavafis scriveva: 

“Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?”

Ciascuno di noi sente, per natura, la necessità di lasciare – magari anche solo per pochi giorni – la propria Itaca. Ma noi, cosa ci aspettiamo? Andiamo in cerca di un’avventura che si imprima nei nostri ricordi o ci accontentiamo di andare a caccia di un cliché? Siamo mossi dal medesimo spirito di Ulisse o ci appaghiamo con le “meraviglie artificiali” che ci propinano gli influencer?

"Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".


Lo faceva dire Dante proprio al protagonista dell’Odissea quando lo incontra nel XXVI canto dell’Inferno. Quell’esortazione ai compagni di viaggio al momento della fatidica scelta di oltrepassare i limiti del divino e del possibile, geograficamente rappresentati dalle Colonne d’Ercole.
E noi? Siamo pronti ad andare oltre l’orizzonte della banalità?

Non c’è autenticità nel ripetere la parola “autentico”. Se esiste, è fragile, sfuggente: non si annuncia, si intravede. L’esperienza vera non si impacchetta, accade. Stupisce nel mezzo di una frase, di un sentiero, e ci costringe a riformulare lo sguardo. Anche l’imprevisto, ciò che non è pianificato, i bivi, persino le scelte sbagliate sono ciò che nasce "al singolare". È la pioggia improvvisa che ti coglie quando fuori c’è il sole e non hai l’ombrello, ma che alla fine ti regala l’arcobaleno.
L’immersione, quella reale, richiede il coraggio di abbandonare la superficie. Chi è disposto a farlo?
Inseguendo i trend semantici, il racconto turistico ha smarrito la lingua del dubbio, dell’imperfezione, del margine. Peccato, perché è proprio lì che nasce il senso: non nel già detto, ma nell’incerto. Non nel compiacere, ma nel lasciare domande aperte.
Il punto non è solo cosa diciamo, ma come lo diciamo. E soprattutto: a chi. Possiamo parlare al viaggiatore come a un consumatore affamato di comfort e hashtag #GoodVibesOnly. Oppure rivolgerci a chi cerca ancora una voce, una storia, una crepa nel proprio sguardo.
Scrivere di un territorio non è mai un gesto neutro: è un atto culturale. È decidere quale idea di mondo evocare. Perché nessuno torna trasformato da qualcosa di “esperienziale”. Si torna trasformati - quando accade - da ciò che non si sapeva di voler cercare.

Forse il primo passo è un gesto minimo, ma rivoluzionario: mettere a tacere alcune parole. Lasciarle decantare. Non perché siano sbagliate, ma perché sono stanche. Servono vocaboli nuovi, capaci non solo di descrivere, ma di aprire spazi. Perché il compito del linguaggio turistico non è rassicurare. È agitare, spiazzare, generare desiderio.
Se vogliamo che il turismo continui ad avere senso, dobbiamo ridare ai luoghi la loro voce. Non quella delle etichette, ma quella che nasce dalle pieghe, dalle ombre, dalle imperfezioni. Una voce che non uniforma, ma distingue. Che non promette, ma chiama.Affinché, tornando ciascuno nella propria Itaca,

"Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare".


Gaia Guarino

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